Sento l’invito dell’apostolo Paolo rivolto a tutti noi. Oggi proviamo, infatti, la gioia di essere insieme nell’amicizia e nella fraternità che ci unisce a Edoardo e ai Canonici Lateranensi. La comunione non è mai virtuale. Non si può viverla, come facciamo con tante cose, in modo individualistico e da remoto (i due aspetti sono molto funzionali l’uno all’altro). Essa è molto fisica, legame umano e spirituale. Oggi è gioia condivisa da tanti, quella che Sant’Agostino ricorda essere più abbondante per tutti (mentre quella che ci teniamo stretti finisce per essere una micragna!), poter accompagnare un fratello che la grazia del Signore, la fiducia dei confratelli e l’amicizia di tanti hanno chiamato ad essere Padre. Certo, ricordiamo bene che non dobbiamo chiamare nessuno Padre sulla terra, impegno, questo, che chiede di viverlo sempre solo per conto di Dio. Edoardo ci ha da tempo coinvolti nella sua vita, senza imporsi, sempre con tanta dolce ma fermissima persuasione, con la sua attenta sensibilità umana, con il suo tratto disponibile, sobrio, essenziale, per portarci a mettere sempre Gesù al centro di tutto, la sua Parola, l’incontro con il prossimo specialmente i più poveri, il libero dono di sé.
Oggi celebriamo la sua chiamata e il suo nuovo servizio come abate dei suoi fratelli ma anche, per certi versi, di tutte le nostre comunità. Nella comunione ringraziamo perché il suo dono diventa nostro e lui non solo non è possessivo, geloso, anzi al contrario è contento, perché tutti siamo chiamati a servire, ciascuno in maniera diversa, questa nostra unica bellissima famiglia. Ogni comunità non è mai solo la somma delle nostre persone, perché tra noi c’è il Signore Gesù e lui ci rende una cosa sola con Lui e tra di noi. Quanto è importante essere comunità in un mondo di individualisti! Gesù ci chiama ad essere famiglia, non un’associazione, un gruppo di scopo. Ecco, questa è la Chiesa madre che non smette di renderci figli, di ricordarci che lo siamo, di trattarci come tali anche quando non pensiamo di esserlo, di aiutarci a comportarci in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto. L’Apostolo indica atteggiamenti che possono apparire inutili, non decisivi, da protagonisti che vogliono compiere qualcosa che si impone, di rapido e definito.
L’invito è a vivere con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità. Non disprezziamo mai questi sentimenti – difficile che lo facciamo in modo teorico, mentre nella vita facilmente viviamo difendendo l’orgoglio, come se l’umiltà non tenesse in giusta valorizzazione il nostro io, con aggressività per imporre la nostra forza e scoraggiare atteggiamenti contro di noi, ed essendo malevoli per non farsi trarre in inganno, per non restare delusi, per svelare il male. I sentimenti proposti dall’apostolo sono possibili a tutti e sappiamo – quando noi li incontriamo – quanto sono importanti! L’amore per il Signore si rivela nei particolari, nell’atteggiamento concreto, non nelle grandi dichiarazioni o nei momenti straordinari.
C’è una raccomandazione dell’apostolo molto concreta che è imparare a sopportarci a vicenda. Non sono solo io che sopporto ma ricordiamoci che siamo sempre sopportati e che farlo non è mai un atto passivo, rinunciatario, rassegnato. Tutti abbiamo bisogno che gli altri ci sopportino, nel senso di portare i pesi di ciascuno. Pensiamo che il fratello ha desiderio di qualcuno che non condanni, ma sopporti anche nelle difficoltà! Difendiamo sempre l’unità, affidata a tutti, mai acquisita per sempre, non statica, minacciata dal male che divide, isola, mette gli uni contro gli altri o più facilmente senza di loro! L’unità non è un problema di don Edoardo. Certo, è anche il suo servizio alla comunione, cioè al pensarsi insieme, ad essere cristiani e non pagani, a seguirlo. Ma tutti noi siamo chiamati a difendere e rafforzare l’unità tra di noi. Siamo e saremo una cosa sola, non uguali, ma insieme, ciascuno con la propria “indole”. Nella Chiesa non ci sono spettatori, non si è mai inutili. “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”.
A ciascuno: nessuno è disoccupato e se pensa di esserlo vuol dire che si tiene il dono di quello che è per se stesso. E che ci fa? A un certo punto non lo troverà nemmeno più. Uno dei compiti dell’abate è riconoscere il valore e darlo al dono che è ognuno di noi. Non subire il protagonismo, quando ne facciamo proprietà, un affare personale, importante solo per la considerazione e il ruolo. Il protagonismo è dire io mentre dobbiamo dire noi per poter capire chi siamo. Tutti i servi, invece, sono importanti perché insieme. E l’abate ha proprio il compito di aiutare a pensarsi insieme, di ricordare a tutti si seguire Gesù e di lavorare nella grande vigna di questo mondo, essendolo lui stesso servo, facendolo come Gesù che è venuto per servire non per essere servito. Aiutiamo don Edoardo, rendendo la comunità dei discepoli un luogo dove tutti possano vedere, incontrare, capire l’amore di Dio.
Gesù avvicina le persone che incontra, che aspettano proprio qualcuno che li chiami con amore. Nessuno lo avrebbe fatto: era un pubblicano e proprio a uno così non il «seguimi» ma stai lontano, cambia, renditi conto. Matteo si alzò e lo seguì. Per Gesù non è un pubblicano, come lo giudicano tutti, ma è Matteo. Seguimi. Non sei il tuo tavolo delle imposte, che è la tua forza ma anche la tua condanna, il modo con cui ti arricchisce ma anche la tua prigione. Gesù guarda al cuore. Noi? Gesù non giudica, salva. Noi spesso giudichiamo e condanniamo. Gesù ha misericordia. Ce n’è poca. Anzi continuiamo a pensare che sia ingenuità, illusione colpevole, perché la verità è che Matteo è un pubblicano. Non facciamo finta, non illudiamoci, motivo per cui alcuni si sentono in diritto di essere malevoli per fare render conto, per difendere la loro verità. Non pensiamo mai che uno non possa cambiare. È così.
Gesù con noi rischia. Ci dà fiducia e ce la dà quando non la meritiamo, non aspetta che diventiamo buoni. Ci rende buoni e ci tratta da buoni, come se lo fossimo. Supera ogni barriera. Si mette a tavola con loro nella casa, con i suoi amici. Ma allora? Sei un pubblicano anche tu? Non ti rendi conto? Diventa familiare. Gesù non é venuto a spiegarci una lezione ma a farci vivere un’amicizia, la sua. Dobbiamo sempre imparare cosa vuol dire “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Chi non è malato e chi non è peccatore? Chi può pensare di non esserlo? Ecco, davvero ringraziamo il Signore che chiama Matteo e gli permette di essere quello che è: dono di Dio.
Caro Edoardo, tu avrai cura dei tuoi confratelli ma in realtà dei cari cui la loro vita è legata. Io ti interrogherò, secondo una antica tradizione: osservi la Regola di Sant’Agostino, illumini e guidi in questa stessa via i tuoi fratelli per animarli all’amore di Dio, alla vita evangelica e alla carità fraterna? Ricordati che si insegna più con i fatti che con le parole, per condurre a Dio i tuoi fratelli, prendendo a cuore la salvezza delle anime che ti sono affidate. La regola di Sant’Agostino ti ispiri sempre: aiutando la fraternità tra i preti, perché tutti sono iscritti nei canoni di una determinata Chiesa. Il clerico vagans, ma direi il cristiano vagans, è sempre pericoloso! Sant’Agostino invita i monaci e noi tutti: «Viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un solo cuore protesi verso Dio» (Regola I,3). Preghiera, comunità, uso comune dei beni e spirito di servizio alla Chiesa: queste sono le quattro costanti carismatiche della vostra storia, le “quattro stelle” che non tramontano mai.
S. Agostino ci ricorda che l’uomo solo è debole e misero. Guai all’uomo solo! Sant’Agostino non ammetteva al presbiterio chi rifiutava la vita comune. E spiegarlo, raccontarlo ce lo fa riscoprire! «Non avviene di solito – diceva – che, percorrendo spaziose e incantevoli località cittadine o campestri non proviamo più alcun lascino, perché già le abbiamo contemplate spesso? Eppure, mostrandole a chi non le ha mai viste, nel fascino nuovo che essi provano non si rinnova forse anche il nostro? E tanto più fortemente quanto più essi sono nostri amici, perché a misura che attraverso il vincolo dell’amore noi siamo in loro, quelle cose, che erano vecchie, diventano nuove anche per noi».
E ricorda sempre: «Chi presiede nulla carità non si stimi felice perché domina col potere, ma perché serve con la carità». S. Agostino riassume così i suoi doveri di pastore: «Dobbiamo moderare i turbolenti, incoraggiare i timidi, sostenere i deboli, riprendere i contraddittori, evitare gli invidiosi, istruire gli indotti, scuotere i pigri, frenare i rissosi, reprimere i superbi, pacificare i litiganti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, approvare i buoni, tollerare i cattivi, amare tutti». Ecco la mia e nostra preghiera per te e nella comunione per noi tutti, che sappiamo porti e porterai nel tuo cuore. E siccome siamo a Gubbio, vorrei dirti anche di essere sempre uomo di pace e di bene, quella pace che riconcilia il lupo con le persone, chiamandolo sempre fratello, vincendo la paura e capendo la causa della sua violenza per sconfiggerla. Faceva così, infatti, perché aveva fame e chiese agli abitanti di Gubbio di sfamarlo, ricostruendo la comunità tanto che il lupo visse due anni e tutti si dispiacquero alla sua morte. Ecco la pace. Sii uomo di pace e venga presto la pace in un mondo di tanti lupi e di persone che diventano lupi. Pace e bene.