Saluto cordialmente i partecipanti a questo secondo Convegno, organizzato nell’ambito del progetto culturale che è maturato alla luce e sotto l’ispirazione del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale. E sono lieto di augurare a tutti un dialogo sereno e una ricerca fruttuosa.
Credo che di auguri e, più ancora, di aiuto del Signore, questo incontro abbia davvero bisogno, perchè l’argomento dei suoi lavori sembra – almeno alla mia incompetenza – particolarmente difficile da affrontare.
Ma è senza dubbio anche un tema vivo e attuale. È innegabile che l’odierno momento culturale sia connotato dalla complessità; una complessità che sarà magari preziosa e feconda, ma che a noi, uomini comuni capitati nella nostra epoca, appare più spesso traumatica e disorientante.
I
A ben guardare, il nostro disagio nasce dal fatto che non solo di complessità molte volte si tratta, ma anche di eterogeneità: le voci che risuonano nei moderni areopaghi sono spesso del tutto estranee tra loro e incomunicabili, sicchè il dialogo – da tutti invocato – quando non è superficiale e retorico, è senza approdi gratificanti.
È notevole che si tratta, per così dire, di una ´eterogeneità soddisfattaª. È una confusione delle lingue dove tutti sono benvenuti. Quanto più eterogeneo è il multiloquio, tanto più appare esaltato e si radica nelle coscienze il solo assioma che nessuno oggi contesta – una specie di verità di fede senza RÌvelazione – e cioè la ´relatività assolutaª (per così dire) di ogni affermazione e la certezza dell’impossibilità a raggiungere delle vere certezze.
In questo affollato circolo culturale – dove più gente entra più lo spettacolo si fa agli occhi di molti piacevole e interessante – i soli a non essere graditi e a venir guardati con sufficienza, perchè ritenuti intolleranti e dogmatici (e quindi impresentabÌli nella società moderna e postmoderna), sono quelli che contestano la ´verità di fedeª di cui si parlava e rifiutano l’ indiscutibilità delle premesse relativistiche e scettiche.
Quanto ai dogmatismi, sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri. In realtà, senza qualche certezza preliminare e fondante, non si può dire alcunchè, neppure la tavola pitagorica; non si può scrivere neppure il sillabario; non si può pensare a nulla, neppure dove si andrà a passare le ferie.
Una differenza sostanziale però c’è tra i così detti dogmatismi: ci sono certezze che, appoggiate sul niente, avviano l’uomo al niente; e ci sono certezze che provengono dall’Essere che si manifesta, e guidano verso la vita eterna.
II
Una causa ancora più profonda del malessere del nostro tempo sta nel fatto che, nella generale diversità dei pareri, ci sono in particolare modi disparati e anzi opposti nell’affrontare la “molteplicità delle cose”.
Il problema è antico; anzi, accompagna dall’inizio la storia del pensiero.
Sotto un certo profilo, si può dire che la filosofia è consistita per larga parte nei tentativi di oltrepassare, unificandola in qualche maniera, la pluralità degli esseri, così da preservare l’uomo dal disagio della dispersione e dello smarrimento.
Mi par di ricordare che qualche volta il superamento della molteplicità è avvenuto addirittura con la sua negazione: a cominciare da Parmenide, fino a Spinoza e, in tempi a noi vicini, nell’attualismo idealistico gentiliano e, con cifra contraria, nel monismo materialistico.
Nell’ambito della filosofia cristiana – nutrita di tutti i guadagni del platonismo, dell’aristotelismo e del neoplatonismo – la soluzione è stata invece cercata nell’affermazione di un Essere assoluto e totalizzante, verso il quale i molteplici esistenti – pur esistendo realmente, sia pure in forma analogica – sono delle pure relazioni, non sommabili ad esso.
Ma in questa vicenda compaiono ogni tanto anche quelli che si accontentano della frammentazione, e anzi ritengono che il “frammento” sia il solo oggetto concreto della nostra attenzione. Perciò, sdegnando di prendere in considerazione qualunque ipotesi unificatrice dei fenomeni che non sia non parziale, studiano ad uno ad uno i singoli elementi, i singoli fatti, le singole realtà.
Secondo questo modo di vedere – che è largamente presente anche nella mentalità scientista – per comprendere utilmente e adeguatamente un dato, bisogna prenderlo per se stesso, isolandolo e ignorando le sue estrinseche relazioni. Questa – dicono – è la sola forma conoscitiva non illusoria; ogni altra è un’astrazione senza valore.
In un simile contesto, la filosofia finisce col non avere altri compiti se non quelli della chiarificazione e della corretta analisi del linguaggio.
È un atteggiamento che si riscontra nelle varie proposte positivistiche e in quel filone dell’esistenzialismo che rifiuta di coniugarsi con lo spiritualismo.
Ma davanti a questa accettata frammentazione della realtà, le reazioni dell’uomo sono fatalmente di angoscia – l’angoscia dell’esserci (Heidegger) – o di nausea – la nausea del percepirsi contingente (Sartre) – perchè a ritenersi immersi e confusi in un’accozzaglia di rottami noi ci sentiamo in esilio e come alienati.
La straordinaria novità di questi ultimi decenni è invece la scomparsa del dramma: non c’è più angoscia e non c’è più nausea. Col così detto “pensiero debole” siamo arrivati a una frantumazione compiaciuta e giuliva.
Sicchè c’è quasi da auspicare un po’ di tristezza e un po’ di disperazione: potrebbero diventare l’amara ma salutare premessa di redenzione del pensiero contemporaneo.
III
Ritengo che tutti – credenti o non credenti – possiamo convenire che c’è davanti all’uomo che pensa un dilemma ineludibile.
O l’universo è costituito da una congerie di singolarità, ciascuna delle quali sussiste senza necessari legami con il resto della realtà, oppure è un tutto compaginato e unificato in un disegno, al quale le cose – tutte e ciascuna – sono intrinsecamente ordinate.
Nel primo caso ogni creatura – cioè ogni essere, ogni esperienza, ogni accadimento – è veramente e compiutamente se stessa quando è sciolta da ogni connessione e difesa da ogni condizionamento, sicchè è da ritenere che qualsivoglia sopraggiunta relazione alteri l’identità originaria e attenti o rischi di attentare al bene supremo dell’individualità, a meno che non sia superficiale ed esteriore.
Nel secondo caso ogni creatura – cioè ogni essere, ogni esperienza, ogni accadimento – quando è sottratta al concerto degli esseri non è più se stessa in senso vero e compiuto e, una volta avulsa, si snatura, perchè la connessione e l’inserimento entrano a costituire la sua natura e a determinare il suo significato.
L’uomo si attiene necessariamente all’uno o all’altro corno del dilemma e ne fa la ragione ispiratrice del suo comportamento: o tende a lasciarsi prendere dall’individualismo più coerente (e quindi più arido) e dal piacere di rovesciarsi e disperdersi interamente nella molteplicità (cioè nella frantumazione), o trova nella comunione, nel raccoglimento e nella sintesi (vale a dire, nell’amore) la legge della propria esistenza.
Il primo atteggiamento, a ben guardare, fa credito all'”assurdo”; cioè alla contraddizione di istituire rapporti con le singole realtà, negando la realtà (o almeno la valenza e il senso) di ogni rapporto. Il secondo atteggiamento fa credito al “mistero”: cioè all’esistenza di una realtà concreta e universale, non percepibile come tale, nella quale tutti i frammenti si compongono e si unificano come elementi di un solo progetto.
A indicare la portata e la rilevanza della seconda scelta – quella in cui l’ uomo può sperare di salvarsi – mi avvalgo adesso del termine di “unitotalità” caratteristica della riflessione di Vladimr Sergeevic Solovev.
Questa parola – che i nostri vocabolari non registrano – ci dice che tutto ciò che è, a misura che è veramente, entra in unità con quanto esiste. L’ “unitotalità” è dunque la forma della verità dell’essere; e pertanto le cose separate – considerate proprio come separate – non sono “vere”. Il male è perciò essenzialmente divisione e separazione, perchè è decadenza dalla “unitotalità”.
A questo punto si capisce – se non ci si accontenta delle espressioni superficiali – che tutto questo ragionamento più che offrire delle asserzioni si risolve in una richiesta: l’uomo cerca e postula che ci sia un principio unificante di tutto, diversamente tutto si spezzetta e si banalizza ; ed egli si sente scompaginato e perso.
L’evento cristiano è appunto la risposta di Dio a questa fondamentale domanda dell’uomo. La risposta è la realtà di Gesù Cristo, “nel quale tutte le cose sussistono” (Col 1, 17).
Gesù è l’unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre, proprio in quanto è il principio compaginatore di tutto ciò che esiste e il senso onnicomprensivo di tutto ciò che avviene: “In Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Col 1, 16).
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Pensare è faticoso e talvolta è addirittura spossante, anche perchè è molto di più ciò che non si capisce di ciò che si arriva a capire. “Hanc occupationem pessimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea” (Eccle 1,13), dice il Qoelet , sempre incoraggiante.
“Occupazione pessima”, ma ci viene da Dio; e, se si conserva illibata l’onestà intellettuale, porta immancabilmente a Dio. Pensare è, come si è visto, più che altro indagare; è più che altro anelare alla verità; è più che altro implorare la luce. Pensare, in fondo, è pregare.
Pensando, imploriamo una luce che ci è già stata donata, come dice il Prologo di Giovanni : “Venne la luce vera, quella che illumina ogni uomoª