In memoria di Marco Biagi

            Sono molto riconoscente al dott. Alberani per l'invito fattomi di partecipare a questo Seminario di studio, per ricordare la figura di Marco Biagi. Lo considero un vero onore, e mi offre l'opportunità di riflettere brevemente con voi sul «futuro del lavoro tra diritti, doveri e dignità».

            Non aspettatevi da me riflessioni o analisi tecniche, giuridiche, economiche. Non ho né la competenza scientifica né la competenza istituzionale. La mia riflessione si muove su un altro livello. Essa parte da una costatazione oggi abbastanza condivisa: la crisi che stiamo attraversando prima che istituzionale-politica ed economica, è una crisi culturale, e quindi spirituale. E' una crisi che riguarda l'essere, non l'avere della persona umana.

1.         Consentitemi qualche semplice riflessione su questo punto. In un testo autobiografico, il b. Giovanni Paolo II scrive:

«L'interesse per l'uomo come persona era presente in me da lunga data […]. Eravamo ormai nel dopoguerra, e la polemica con il marxismo era in pieno svolgimento. In questi anni, la cosa più importante erano diventati per me i giovani, che non mi ponevano domande sull'esistenza di Dio, ma precisi quesiti come vivere, cioè sul modo di affrontare e risolvere i problemi dell'amore e del matrimonio nonché quelli legati al mondo del lavoro».

[cit. da St. Grygiel, Dialogando con Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena 2013 pag. 150].

            Chi vive coi giovani, sa che quanto scriveva quel grande Papa è ancora di bruciante attualità. La domanda su «come vivere» urge anche oggi nel cuore del giovane. E la domanda viene sempre coniugata su due paradigmi: l'amore e il lavoro. Si ha la controprova nel fatto che le due fondamentali dimensioni dell'humanum hanno sempre lo stesso destino: l'una trascina con sé l'altra.

            M. Biagi, come giuslavorista ha sempre guardato con molta attenzione ai soggetti più deboli, soprattutto le giovani generazioni.

            Del resto, già nella S. Scrittura la quale, anche per il non credente è la cifra della nostra civiltà, definisce l'humanum in questo modo. Possiamo ricordare quella pagina, vera colonna portante della nostra cultura del lavoro.

«Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». [Gen 1, 27]. La persona umana non è un single, e quando l'uomo vede per la prima volta la donna, compone il primo canto d'amore.

«Riempite la terra: soggiogatela» [1, 28]. E' la coltivazione e la custodia affidata all'uomo e alla donna, e che si compie mediante il lavoro.

Ora, che cosa è accaduto all'interno di un processo che non è il caso di descrivere ora neppure per sommi capi? Uso ancora un linguaggio desunto dalla Dottrina sociale della Chiesa, ma che ha un'ascendenza già in Aristotele.

Il lavoro umano ha una dimensione transitiva o oggettiva e una dimensione intransitiva o soggettiva. La prima denota il fatto che ogni lavoro umano è produttore di qualcosa: costruisce ponti; apre strade, e così via. La seconda denota il fatto che ogni lavoro umano incide sul profilo della persona che lo compie. La prima dimensione denota il legame col mondo, la seconda con se stessi.

Una vera civiltà del lavoro è data dalla verità e dall'armonia nel rapporto fra le due dimensioni, e in un ordinamento giuridico conforme a questa verità.

Sono sempre più convinto che il futuro del lavoro dipenderà in larga misura dalla recuperata capacità di ricostruire nella verità il rapporto fra la dimensione produttiva del lavoro e la sua dimensione personale.

Le idee di M. Biagi e le sue proposte erano già chiaramente e profeticamente verso questo che è il vero nodo del lavoro, oggi: coniugare i cambiamenti della società con la necessità di riuscire ad avere un lavoro in cui la persona possa realizzare se stessa [dimensione soggettiva] ed al contempo partecipare veramente alla produzione del benessere sociale [dimensione oggettiva].

           

2.        Mi sia consentito riflettere un poco su questo. Ciò che ferisce oggi la coscienza giovanile è la dolorosa esperienza che molti giovani hanno di sentirsi “sovra-numerari” nella società: un “di più” di cui la società può fare senza. Papa Francesco disse che rischiamo di saltare una generazione.

            Come è potuto accadere una tale tragedia? Non saprei chiamarla con altro nome. Se creo una cultura del lavoro nella quale viene assegnata al medesimo pressoché esclusivamente la finalità produttiva, è l'oggetto prodotto ciò che supremamente interessa. I mezzi diventano sempre più importanti del fine. Se per raggiungere lo stesso fine prodotto, posso trovare dei mezzi più efficaci che il lavoro umano, non si vede perché esso non possa essere sostituito. Riduci il lavoro alla produzione, e prima o poi il lavoro diventa una semplice variabile del sistema produttivo. La persona diventa una “funzione in ordine a…”.

            Non si tratta di passare da un estremo all'altro, ma di riconoscere la persona umana e le sue relazioni fondamentali. Questo riconoscimento comporta la superiorità di ciò che è intransitivo nel lavoro dell'uomo, dimensione intransitiva che condiziona il valore proprio del lavoro medesimo e ne costituisce la dimensione propriamente umana. «L'intransitivo è quindi più importante di ciò che è transitivo, che si obiettivizza in qualche prodotto e che serve alla trasformazione del mondo, oppure al suo sfruttamento». [K. Wojtyla, Il problema del costruirsi delle cultura attraverso la «praxis» umana, in Metafisica della persona, Bompiani ed., Milano 2003, pag. 1451-1452].

            E' giusto, è saggio che se accade un'alluvione si corra tutti a chiudere le falle degli argini. Ma sarebbe stolto non chiedersi se non ci sono anche gravi responsabilità umane. Circa il futuro del lavoro è necessario ed urgente correre –come si dice – ai ripari. Ma sarebbe stolto pensare che questo basti a dare futuro al lavoro. Bisogna chiedersi quali sono le radici culturali, sistemiche della condizione del lavoro: è questa la via che, “di spirito profetico dotato”, Benedetto XVI aprì coll'Enc. Caritas in veritate.

Armonizzare i valori dell'equità, dell'efficienza, e della competitività e coesione sociale rappresentano i punti cardini del pensiero di M. Biagi. Vedo una profonda armonia, quindi, fra il suo pensiero e soprattutto il Capitolo secondo dell'Enciclica.

            Qualcuno a questo punto potrebbe dirmi: “lungo il cammino hai perso un pezzo. Hai iniziato parlando del lavoro e di matrimonio-famiglia. Hai poi parlato solo del primo”. La ragione per cui non sono partito solo dal classico testo genesiaco sul lavoro, ma anche dal testo sulla persona umana, va ora detta.

            La cit. Enc. Caritas in veritate dice: «il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana» [54]; e poco più sotto: «la rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale». [55].

            La concezione riduzionistica del lavoro, di cui ho parlato, impedisce di farne un'esperienza di relazionalità interpersonale. Il matrimonio e la famiglia sono la scuola originaria vera della relazione interpersonale. La famiglia non è soltanto una comunità privata. Essa è il fattore più potente della socializzazione della persona e della personalizzazione della società. In quanto tale, essa è prima dello Stato – come per altro riconosce anche la nostra Costituzione – e, rispetto ad esso, dotata di un ordinamento intrinseco proprio. E' per questo che nell'ambito statale non è in discussione la verità dell'uomo ed il bene, così come lo è invece nella famiglia.

            E' stato Freud a definire la persona umana matura, la persona capace di amare e di lavorare. L'amore, secondo l'intera sua area semantica, ed il lavoro, secondo la sua intera verità, sono i fattori fondamentali della costruzione di una vera civiltà.

3.        La ragione per cui ci troviamo in questo luogo è di fare memoria di un grande uomo, di un grande testimone della dignità del lavoro. Le grandi persone, come M. Biagi, dicono a tutti coloro coi quali hanno convissuto o convivono, che esiste la via anche se molto faticosa e rischiosa, che conduce alla Verità e al Bene, affidati al lavoro di ciascuno. Nemmeno la morte interrompe la presenza nella nostra vita delle grandi persone, dei grandi testimoni. Il loro influsso si intensifica ancora più quando non ci sono più. La loro memoria indica la via, e quindi ridesta la speranza.

            M. Biagi ha testimoniato il bene umano del lavoro, e come tutti i testimoni della verità e del bene, è stato oggetto di denigrazione, di false accuse, ed infine è stato ucciso. Che la sua testimonianza non cada dalla memoria di questa città, specialmente in questi giorni.

 

 

17/03/2014
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